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Email del dipendente: se protetta da password, l’intrusione è reato penale

L’email del dipendente se c’è la presenza di una password è uno spazio riservato e l’accesso abusivo di terzi configura un reato penale. Così la Corte di Cassazione ha punito con 6 mesi di reclusione un dipendente pubblico che aveva effettuato ripetuti accessi nella casella di posta elettronica di un collega di ufficio, scaricando anche dei file.
A cura di Antonio Barbato
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email dipendente privacy

L’email del dipendente è riservata, se protetta da password, e non può essere oggetto di intrusioni né da parte del datore di lavoro né da parte dei colleghi d’ufficio. L’accesso abusivo di terzi è infatti un reato perseguibile penalmente. E’ il contenuto di un importante pronuncia della Cassazione sezione penale giunge in materia di caselle email del dipendente.

La Corte di Cassazione, con la sentenza della V Sez. penale del 31 marzo 2016 n. 13057, ha quindi stabilito che la presenza della password nella casella e-mail rivela la chiara volontà dell’utente di farne uno spazio a sé riservato, sicché l’accesso abusivo di terzi in tale casella configura il reato di cui all’art. 615-ter del codice penale. E ciò anche se si tratta di un sistema informatico aziendale con caselle dedicate ai singoli lavoratori (munite appunto di password).

Il fatto: La condanna a 6 mesi di un dipendente pubblico. La Suprema Corte ha confermato la condanna a sei mesi per un dipendente pubblico che aveva effettuato ripetuti accessi nella casella di posta elettronica di un collega del medesimo ufficio e, dopo aver preso visione di diversi documenti, ne aveva scaricati alcuni.

Articolo 615 ter Codice Penale  – Accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico:

Chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, è punito con la reclusione fino a tre anni. La pena è della reclusione da uno a cinque anni:

1) se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, o da chi esercita anche abusivamente la professione di investigatore privato, o con abuso della qualità di operatore del sistema;

2) se il colpevole per commettere il fatto usa violenza sulle cose o alle persone, ovvero se è palesemente armato;

3) se dal fatto deriva la distruzione o il danneggiamento del sistema o l'interruzione totale o parziale del suo funzionamento, ovvero la distruzione o il danneggiamento dei dati, delle informazioni o dei programmi in esso contenuti.

Qualora i fatti di cui ai commi primo e secondo riguardino sistemi informatici o telematici di interesse militare o relativi all'ordine pubblico o alla sicurezza pubblica o alla sanità o alla protezione civile o comunque di interesse pubblico, la pena è, rispettivamente, della reclusione da uno a cinque anni e da tre a otto anni.

Nel caso previsto dal primo comma il delitto è punibile a querela della persona offesa; negli altri casi si procede d'ufficio.

Secondo un attenta analisi della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro, la Corte ha chiarito che “la casella mail rappresenta, inequivocabilmente, un sistema informatico rilevante ai sensi dell’art. 615/ter cod. pen.”, sottolineando che con questa espressione “il legislatore ha fatto riferimento a concetti già diffusi ed elaborati nel mondo dell’economia, della tecnica e della comunicazione, essendo stato mosso dalla necessità di tutelare nuove forme di aggressione alla sfera personale, rese possibili dallo sviluppo della scienza”.

La Corte ha anche precisato che “i sistemi informatici rappresentano un’espansione ideale dell’area di rispetto pertinente al soggetto interessato, garantita dall’art. 14 Cost. e penalmente tutelata nei suoi aspetti più essenziali e tradizionali dagli artt. 614 e 615”; pertanto, in un sistema informatico pubblico ove siano attivate caselle di posta elettronica protette da password personalizzate, “quelle ‘caselle’ rappresentano il domicilio informatico del dipendente, sicché l’accesso abusivo alle stesse, da parte di chiunque (quindi, anche da parte del superiore gerarchico), integra il reato di cui all’art. 615/ter cod. pen.”.

Decisiva è dunque la presenza della password, la quale dimostra che a quella casella è collegato uno ius excludendi da parte del lavoratore, di cui anche i superiori gerarchici devono tener conto.

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