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Convivenza di fatto e impresa familiare: reddito ripartito solo ai fini fiscali

L’Agenzia delle Entrate ha chiarito che è possibile ripartire i redditi dell’impresa familiare in caso di convivenza di fatto, oltre che di matrimonio e di unione civile. E’ possibile infatti imputare gli utili a convivente di fatto che presta stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente, con un limite del 49%. L’Inps, di contro, non riconosce alle coppie di fatto l’equiparazione e calcola i contributi da versare alla Gestione Artigiani e commercianti interamente al titolare dell’impresa. Vediamo perché.
A cura di Antonio Barbato
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L’Agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 134/E del 26 ottobre 2017 ha chiarito quali sono i rapporti tra convivenza di fatto e impresa familiare. In particolare è stato chiarito come va ripartito il reddito nel caso in cui il convivente di fatto presta stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente. E’ possibile ripartire il reddito dell’impresa individuale del titolare tra i conviventi, con la logica conseguenza di poter beneficiare di aliquote Irpef più basse per effetto della ripartizione del reddito tra i due conviventi. L’Inps invece imputa l’intero reddito al titolare dell’impresa, in quanto non equipara la convivenza di fatto al matrimonio e quindi non consente la ripartizione dei redditi.

La risoluzione n. 134/E del 26 ottobre 2017 interviene per chiarire “Imputazione degli utili al convivente di fatto che presta stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente”.

La posizione dell’Agenzia delle Entrate è chiara: i conviventi potranno ripartire il reddito d’impresa individuale del titolare.

Mentre per quanto riguarda le posizioni Inps, secondo quanto definito dalla circolare Inps n. 66 del 2017, a differenza di quanto accade nell’impresa familiare, l’intero reddito della ditta individuale dovrà essere assoggettato al versamento dei contributi alla Gestione Artigiani e Commercianti dell’Inps con il reddito imponibile dal punto di vista previdenziale in capo solo al titolare dell’impresa e quindi senza poter dividere il reddito tra i due conviventi.

C’è quindi una disparità di trattamento fiscale e previdenziale in base alle due pronunce. Analizziamo quindi il contenuto della risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 134/E del 26 ottobre 2017 e quanto è stato già previsto dall’Inps nella circolare n. 66 del 31 marzo 2017.

L’Agenzia delle Entrate si è trovata a dover affrontare e a chiarire il meccanismo con il quale va gestita l’imputazione del reddito d’impresa, in caso di impresa familiare, al convivente dell’imprenditore titolare dell’impresa familiare stessa qualora il convivente partecipi all’attività imprenditoriale. E lo ha fatto in risposta ad un interpello di un titolare di impresa individuale.

 

Reddito ripartito tra conviventi: risoluzione Agenzia delle Entrate

L’Agenzia delle entrate con risoluzione n. 134/E del 26/10/2017 ha chiarito come trattare in modo corretto ai fini fiscali le quote di utili imputate al convivente dell’imprenditore dell’impresa familiare nel caso in cui il convivente partecipi all’attività d’impresa.

In Italia l’impresa familiare è regolata con all’art. 230-bis del c.c., tuttavia con la legge sulla “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze” (legge Cirinnà) sono state introdotte nell’ordinamento italiano delle modifiche importanti che riguardano sia l’introduzione nel nostro ordinamento l’istituto dell’unione civile tra persone dello stesso sesso (art. 1) che la disciplina del regime delle convivenze di fatto.

La legge Cirinnà tutela in maniera differente le unioni civili rispetto alle convivenze di fatto. Infatti per le unioni civili, che ricordiamo essere unioni civilmente riconosciute tra persone dello stesso sesso, la legge estende alle unioni civilile disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole ‘coniuge’, ‘coniugi’ o termini equivalenti contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi nonché nei contratti collettivi”.

Definizione di convivenza di fatto secondo la legge Cirinnà. La convivenza di fatto invece è definita all’art. 1 comma 36 della legge 76 del 2016 come “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”

Cosa succede in caso di impresa familiare? Per quanto riguarda la disciplina dell’impresa familiare, la Legge Cirinnà stabilisce che:

  • alle unioni civili si applica la disciplina civilistica dell’impresa familiare di cui all’articolo 230-bis del c.c. (mediante il rinvio contenuto nell’art. 1 comma 13 all’intero capo VI del titolo VI del libro primo del c.c.);
  • si introduce nel codice civile l’articolo 230-ter, titolato “Diritti del convivente”, relativo alla regolamentazione delle prestazioni di lavoro rese in favore del convivente more uxorio.

L’art. 230 ter del c.c. prevede che “Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”.

Quindi, affinché si possa applicare l’art. 230-ter del c.c. deve esserci tra i due soggetti:

a) il rapporto di convivenza;

b) lo svolgimento stabile di prestazioni di lavoro;

c) l’esistenza di un’impresa cui risulti connessa la prestazione lavorativa.

Mentre se tra i conviventi è in piedi un rapporto di società o di lavoro subordinato la partecipazione agli utili non spetta.

Ma perché creare una norma apposita per regolarizzare la situazione dei conviventi in un’impresa familiare piuttosto che applicare il dettato normativo già esistente?

Il motivo sta nella volontà del legislatore di mantenere su posizioni differenti la collaborazione del convivente rispetto a quella del familiare o della parte civile.

La differenza sta nell’esclusione del convivente dal:

  • diritto al mantenimento, dal diritto alla partecipazione alle decisioni dell’impresa,
  • tali diritti spettano invece al familiare ed alla parte civile così come previsto dall’art. 230-bis comma 1 c.c.

Reddito ripartito tra conviventi: regime fiscale

Per le imprese familiari si applica il regime tributario previsto dal comma 4 dell’articolo 5 del TUIR. La norma stabilisce che, per le imprese familiari di cui all’art. 230-bis del codice civile i redditi “limitatamente al 49% dell'ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell'impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili”.

Quindi, l’imputazione non può andare oltre il 49 per cento del reddito ed è subordinata ad alcune condizioni quali:

  • che i familiari partecipanti all’impresa risultino da atto pubblico o da scrittura privata autenticata, con l’indicazione del rapporto di parentela o affinità e che l’atto pubblico o la scrittura privata siano sottoscritte dall’imprenditore o dai familiari partecipanti;
  • tributaria che la dichiarazione dei redditi dell'imprenditore indichi le quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l'attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell'impresa in modo continuativo e prevalente, nel periodo d'imposta;
  • che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell'impresa in modo continuativo e prevalente.

Inoltre, sempre l’art. 5 del TUIR stabilisce inoltre che “si intendono per familiari, ai fini delle imposte sui redditi, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado”. Da questo si potrebbe quindi escludere il convivente dell’imprenditore dalla partecipazione agli utili dell’impresa familiare in cui presta la sua attività lavorativa, tuttavia non è così.

L’Agenzia delle Entrate con circolare 134/E del 2017 chiarisce e conferma che, il riferimento contenuto nell’art. 230-ter alla “partecipazione agli utili dell’impresa familiare” spettanti al convivente, consente di applicare anche al convivente di fatto i principi generali che l’articolo 5 del TUIR stabilisce in caso di impresa familiare.

Quindi il reddito spettante al convivente di fatto dell’imprenditore, derivante dalla partecipazione agli utili dell’impresa del convivente sia a questo imputabile in proporzione alla sua quota di partecipazione.

Contributi Artigiani e Commercianti convivenza di fatto: Inps, no alla ripartizione del reddito

L’Agenzia delle Entrate nella propria pronuncia ha quindi consentito anche alle coppie di fatto una ripartizione del reddito tra conviventi, nel limite del 49% del reddito dell’impresa familiare. L’Inps, con una pronuncia di marzo 2017 è invece di diverso parere per quanto riguarda la contribuzione previdenziale dovuta alla Gestione Artigiani e Commercianti.

Siccome il peso della contribuzione è rilevante per il titolare del reddito d’impresa e del proprio convivente di fatto, ed incide sulle scelte economiche della coppia di fatto, vediamo in maniera più dettagliata, cosa ha previsto l’Inps nella circolare n. 66 del 2017.

La circolare Inps n. 66 del 2017 premette che: “La nuova normativa estende al convivente alcune tutele, espressamente indicate, riservate al coniuge o ai familiari, ad esempio in materia penitenziaria, sanitaria, abitativa, ma non introduce alcuna equiparazione di status, né estende al convivente, per quanto di interesse, gli stessi diritti/obblighi di copertura previdenziale previsti per il familiare coadiutore”.

Inps: il convivente di fatto non è collaboratore familiare. La circolare sulla base della premessa stabilisce che “Pertanto, il convivente di fatto, non avendo lo status di parente o affine entro il terzo grado rispetto al titolare d’impresa, non è contemplato dalle leggi istitutive delle gestioni autonome quale prestatore di lavoro soggetto ad obbligo assicurativo in qualità di collaboratore familiare”. E conclude che “Le sue prestazioni saranno quindi valutabili, in base alle disposizioni vigenti ed alle elaborazioni giurisprudenziali, al fine di individuare la tipologia di attività lavorativa che si adatti al caso concreto”.

Poi l’ente previdenziale tratta proprio il caso previsto dalla risoluzione dell’Agenzia delle Entrate: “E’ utile evidenziare, inoltre, che il comma 46, che aggiunge l’art. 230 ter al codice civile, attribuisce al convivente “che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente“ il diritto di “partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento,  commisurata al lavoro prestato”, a meno che non sussista già tra le parti un rapporto di subordinazione o di società.

Tale innovazione, peraltro, non attribuisce ai conviventi di fatto i medesimi diritti di cui godono i familiari individuati dall’art. 230 bis, poiché a tal fine il legislatore avrebbe utilizzato locuzioni idonee ad includere il convivente nella formulazione del predetto articolo e non avrebbe al contrario introdotto un nuovo articolo, che disciplina separatamente i diritti del convivente che presti attività in un’impresa familiare.

In ogni caso, ai fini che qui interessano, si ritiene che, alla luce del tenore letterale e dell’interpretazione delle disposizioni introdotte, l’eventuale attribuzione di utili d’impresa al convivente di fatto, da parte del titolare, ai sensi del nuovo articolo 230 ter, non abbia alcuna conseguenza in ordine all’insorgenza dell’obbligo contributivo del convivente alle gestioni autonome, mancando i necessari requisiti soggettivi, dati dal legame di parentela o affinità rispetto al titolare”.

Questa pronuncia vuol dire che in caso di convivenza di fatto, a differenza delle imprese familiari legalmente costituite o delle aziende non costituite in imprese familiari, ma dove il collaboratore è un familiare ai sensi del codice civile, i conviventi di fatto non possono ripartire il reddito con la conseguenza che il titolare dell’impresa individuale deve versare i contributi sul reddito per intero, non ripartito, anche versando l’eventuale contribuzione eccedente il minimale.

Diversamente, secondo l’Inps, come stabilito dalla circolare n. 22 del 2017 che tratta la contribuzione dovuta da Artigiani e Commercianti, specificamente riguardo alle imprese familiari con coniugi legati da matrimonio, è prevista la possibilità di imputare quote di reddito ai familiari collaboratori (nello specifico al coniuge).

La circolare infatti tratta il caso delle imprese con collaboratori stabilendo che “Qualora il titolare si avvalga anche dell'attività di familiari collaboratori, i contributi eccedenti il minimale devono essere determinati con le seguenti modalità:

a) imprese familiari legalmente costituite: sia i contributi per il titolare, sia quelli per i collaboratori debbono essere calcolati tenendo conto della quota di reddito denunciata da ciascuno ai fini fiscali (cfr. art. 230-bis C.C.; art. 5, comma 4 del DPR 22 dicembre 1986, n. 917);

b) aziende non costituite in imprese familiari: il titolare può attribuire a ciascun collaboratore una quota del reddito denunciato ai fini fiscali; in ogni caso, il totale dei redditi attribuiti ai collaboratori non può superare il 49 per cento del reddito globale dell'impresa; i contributi per il titolare e per i collaboratori debbono essere calcolati tenendo conto della quota di reddito attribuita a ciascuno di essi (cfr. art. 1, comma 5 della legge 2 agosto 1990, n. 233).

Questa disposizione contenuta nella circolare, è applicabile ai contributi previdenziali dovuti dai coniugi legati da matrimonio che collaborano nell’impresa familiare ma non ai conviventi di fatto, i quali potranno ripartire il reddito solo ai fini fiscali.

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