video suggerito
video suggerito
Opinioni

Lavoratrici madri: con stipendi troppo bassi, non conviene più lavorare

Le statistiche pubblicate dai Consulenti del Lavoro evidenziano che gli stipendi sono troppo bassi e alle lavoratrici madri non conviene più lavorare durante i primi anni di vita del bambino, perché la baby sitter costa di più dello stipendio: mediamente 500 euro. Non solo, una famiglia su tre è ormai composta da una persona sola. Del welfare aziendale diffusi soli i buoni pasto o ticket restaurant. Ecco tutti i dati che evidenzano quando è lontana la conciliazione tra vita e lavoro in Italia.
A cura di Antonio Barbato
66 CONDIVISIONI
Video thumbnail
conciliazione vita lavoro

Nell’ultimo decennio si sono sensibilmente ridotte le coppie con figli, sono in aumento le famiglie composte da una persona sola e alle donne lavoratrici madri non conviene più lavorare durante i primi anni di vita del proprio bambino, soprattutto perché i salari sono troppo bassi. Nonostante gli sforzi del Governo, che ha recentemente pubblicato un Decreto contenente le misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, le statistiche dicono che la strada da percorrere è ancora lunga e, soprattutto, che sono necessarie nuove misure che incentivino la procreazione e la gestione della vita lavorativa per le coppie che hanno dei bambini.

L’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro ha pubblicato in occasione del Festival del Lavoro 2016, tenutosi a Roma, un rapporto riguardante la famiglia e il lavoro, nel quale si è posta l’attenzione sulla conciliazione tra vita e lavoro delle lavoratrici madri e su come è cambiato la composizione del nucleo familiare nell’ultimo decennio.

I dati sulla famiglia e sulle difficolta delle lavoratrici madri, soprattutto nei primi anni di vita del bambino, a reinserirsi nel mondo del lavoro, visti gli stipendi tendenzialmente troppo bassi, si ripercuotono, inevitabilmente, sulla capacità lavorativa di tali soggetti. E sulle loro capacità di sostenimento economico della famiglia.

Nel rapporto si legge prima di tutto che “una famiglia su tre è composta da una persona sola” e che inevitabilmente “diminuiscono le coppie con figli”. Il periodo di osservazione è quello che va dal 2004 al 2015 e gli esperti hanno evidenziato che pur rimanendo il nucleo familiare classico quello costituito da una coppia con figli, cresce in maniera consistente il numero di persone che vivono da sole. Tra le cause, l’invecchiamento progressivo della popolazione e l’aumento delle separazioni e divorzi.

Complessivamente, quindi, le famiglie tendono a essere sempre più piccole e perciò sempre più frammentate e socialmente isolate, soprattutto tra gli anziani.

Ma il dato più preoccupante, è quello riguardante le lavoratrici madri, che troppo spesso optano per una dimissione durante la gravidanza o il primo anno di vita del bambino e che comunque tendono a non tornare più a lavorare negli anni successivi al primo anno di vita del bambino. Ad evidenziare la motivazione di tali scelte sono stati i Consulenti del Lavoro nel dossier presentato al Festival del Lavoro di Roma.

Calderone: “Alle madri con bassi salari non conviene lavorare. Necessaria una politica di sostegno alla famiglia”

Il dossier pone l’accento su un altro aspetto che sta rappresentando sempre di più un problema nell’ambito del panorama legislativo italiano in materia di lavoro, di diritti delle donne in gravidanza e puerperio, ed in generale in materia di diritti della donna ad essere lavoratrice e madre, conciliando appunto le esigenze di vita e famiglia con quelle lavorative.

L’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro, voluto dalla Presidente Calderone e dal Presidente della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro Rosario De Luca, ha evidenziato un fattore che incide notevolmente sul tasso di occupazione o disoccupazione femminile in Italia.

Ebbene, come dichiarato dalla Presidente Calderone ai nostri microfoni, “alle madri con bassi salari non conviene lavorare” e la motivazione sta nei costi del lavoro domestico e per la cura dei figli, svolto gratuitamente dalle madri, che dovrebbe invece essere pagato nel caso la donna decidesse di lavorare: infatti, le donne che si aspettano di guadagnare uno stipendio più alto delle spese che dovrebbero sostenere per i servizi sostitutivi del lavoro domestico e di cura dei familiari sono potenzialmente più propense a lavorare, viceversa alle madri meno istruite e con minori qualifiche professionali, che hanno un’aspettativa salariale più bassa, non conviene lavorare dal momento che il costo dei servizi sostitutivi rischia di essere più alto del salario che possono guadagnare, a meno di disporre di una rete familiare di caregiver.

Il costo dei servizi sostitutivi del lavoro domestico e di cura dei bambini (baby sitter), in assenza di nonni o di altri familiari, è pari a circa 500 euro al mese.

Questa tesi è confermata dall’analisi del tasso d’occupazione femminile per titolo di studio: cresce con l’aumento del livello d’istruzione, dal momento che è molto probabile che a titoli di studio più alti corrispondono anche salari più elevati, che consentono di pagare più agevolmente i servizi di cura dei bambini.

Infatti, il tasso di occupazione di una madre con al massimo la licenza media diminuisce in modo drammatico dal 45% nel caso la lavoratrice abbia un figlio al 36,7% con la nascita del secondo figlio, al 26,4% con il terzo figlio e al 18,6% con quattro o più figli. Anche per le madri diplomate il tasso di occupazione diminuisce drasticamente dal 64,6% (1 figlio) al 43,2% (4 figli e più).

Per le laureate la nascita di uno o tre figli determina il fenomeno contrario perché aumenta il tasso di occupazione dal 79,8% all’81%, probabilmente perché aumenta il bisogno di un reddito da lavoro per far fronte all’incremento significativo delle spese per mantenere i figli, a fronte dell’aspettativa di una retribuzione elevata che copre queste spese. Solo con 4 figli e oltre diminuisce leggermente il tasso di occupazione delle laureate. La differenza tra il tasso di occupazione delle donne con al massimo la licenza media e di quello delle laureate raddoppia, come è del resto atteso, con l’aumento del numero dei figli e delle spese per il loro mantenimento, da 34,9 a 54,6 punti percentuali.

Quali sono le soluzioni proposte dai Consulenti del Lavoro.  È prioritario, di conseguenza, ridurre il costo dei servizi di cura per l’infanzia attraverso agevolazioni fiscali e soprattutto con misure più ampie come quelle di welfare aziendale che prevedano la partecipazione ai costi da parte delle imprese, rivolte innanzitutto alle fasce di lavoratori con più bassi livelli d’istruzione e quindi di reddito.

Solo 21 madri su 100 non lavorano e non cercano lavoro a causa dell’inadeguatezza dei servizi di cura dei bambini e degli anziani non autosufficienti.

Ma occorre osservare che delle circa 900 mila madri che sono inattive perché devono prendersi cura dei figli o di persone non autosufficienti, solo il 21% dichiara che non ha cercato lavoro perché nella zona in cui vive i servizi di supporto alla famiglia, compresi quelli a pagamento (baby-sitter e assistenti per anziani), sono assenti, inadeguati o troppo costosi e il 79% afferma che non ha cercato lavoro per altri motivi.

Di conseguenza, “solo” circa 190 mila madri inattive potrebbero rientrare nel mercato del lavoro se i servizi per l’infanzia fossero più diffusi e meno costosi.

Queste informazioni portano a concludere che la scelta di non cercare un’occupazione da parte della grande maggioranza delle madri inattive per motivi familiari è volontaria, anche se in alcuni casi condizionata da stereotipi di genere e da motivi culturali.

Infatti, è emerso da alcuni studi che la decisione di non lavorare deriva anche dalla convinzione che la qualità dell’assistenza che può dedicare una madre ai figli non è comparabile con quella di un asilo o di una babysitter e, per quanto riguarda esclusivamente alcune etnie d’immigrati, dal confinamento del ruolo delle donne fra le mura domestiche.

Del resto, anche nel resto dell’Unione europea il 50% dei bambini sotto i tre anni è assistito dai genitori, e solo il 28% è affidato agli asili nido.

L’influenza di motivi culturali nella decisione di non lavorare in presenza di figli dei figli emerge anche dall’analisi delle risposte delle donne per cittadinanza: il 77% delle madri italiane dichiara che non ha cercato lavoro per altri motivi, diversi da quelli dell’inadeguatezza dei sevizi di cura per l’infanzia e le persone non autosufficienti, ma una percentuale maggiore di 7 punti percentuali si registra tra madri immigrate extracomunitarie (84%) e, in misura minore, tra le straniere comunitarie (81%).

Il welfare aziendale: poco diffusi i servizi di conciliazione tra vita e lavoro

Il tema del costo dei servizi sostitutivi del lavoro domestico che, se superiore al salario atteso, rende non conveniente lavorare, diventa ancora più centrale quando si vanno ad osservare le statistiche sul welfare aziendale.

E’ sicuramente prioritario promuovere l’occupazione femminile, riducendo il costo dei servizi di cura per l’infanzia attraverso agevolazioni fiscali ma è necessario anche, soprattutto, introdurre misure più ampie come quelle di welfare aziendale che prevedano la partecipazione ai costi da parte delle imprese, rivolte innanzitutto alle fasce di lavoratori con più bassi livelli d’istruzione e quindi di reddito.

Difatti, lo Stato non è in grado di fornire al cittadino un sistema completo di welfare che copra ogni esigenza determinata dal progressivo invecchiamento della popolazione e dalla maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro, a causa dei sempre più stringenti vincoli di spesa: le imprese, con il welfare aziendale, possono contribuire in modo significativo a migliorare la vita privata e lavorativa dei propri dipendenti e a facilitare la conciliazione tra vita privata e professione, aumentando anche il benessere in azienda, riducendo l’assenteismo, incrementando la produttività e l’efficienza organizzativa e favorendo migliori relazioni sindacali.

Con la recente legge di stabilità 2016, è stata operata una profonda riforma delle norme fiscali relative al welfare aziendale: le modifiche introdotte rappresentano un cambiamento di enorme portata, poiché non si applicano solo ai beni e servizi erogati in sostituzione totale o parziale del premio di produttività, ma a tutti i benefit di welfare aziendale offerti ai lavoratori, al fine di superare il limite della volontarietà, aggiornare e ampliare il paniere di servizi, favorire lo sviluppo di strumenti che facilitino la fruizione dei servizi.

Nel 2014, le prestazioni di welfare aziendale più diffuse sono i buoni pasto e la mensa aziendale: i ticket-restaurant sono ricevuti complessivamente da circa 2,4 milioni di lavoratori, pari al 14% del totale dei lavoratori dipendenti, con valori nettamente più bassi per le donne. Le differenze di genere in valori assoluti dei percettori di buoni pasto sono spiegate dal minore numero di donne occupate rispetto agli uomini, mentre il gap delle incidenze percentuali possono essere messi in relazione alla minore diffusione di questo benefit nei settori economici più femminilizzati come l’istruzione (i professori non beneficiano dei ticket-restaurant), la sanità (i turnisti negli ospedali non ne hanno diritto) e la pubblica amministrazione (non ne hanno diritto gli impiegati pubblici che effettuano la sospensione del lavoro nell’ora del pranzo).

Le profonde differenze di genere sui buoni pasto si rilevano anche analizzando il numero medio di ticket erogati in un mese (18,3 tra gli uomini e 16,6 tra le donne), mentre sono ovviamente minori in relazione valore medio del buono pasto (circa 6 euro): di conseguenza le lavoratrici percepiscono mediamente 99 euro al mese di buoni pasto e gli uomini 113 euro. Sicuramente incide su questo differenziale l’alta quota di part-time tra le lavoratrici, ma anche, tenendo conto che i buoni pasto sono attribuiti per giorno di presenza effettiva, le giornate di assenza delle donne per congedo parentale, per assistere i familiari disabili, per allattamento, ecc.

Oltre 1,7 milioni di lavoratori consumano i pasti nella mensa aziendale (10% del totale dei dipendenti), ancora una volta con una quota maggiore di uomini.

Anche i cellulari sono appannaggio prevalentemente degli uomini, mentre una quota maggiore di lavoratrici beneficia dell’alloggio gratuito oppure a prezzo ridotto.

Il quinto benefit per numero di lavoratori che lo ricevono è il rimborso delle spese sanitarie, che interessa 246 mila lavoratori dipendenti (1,5% del totale), in maggioranza donne.

Una maggiore quota di lavoratrici beneficia del rimborso delle spese per le bollette dell'abitazione privata (luce, gas, telefono fisso, ecc.) (1,2%, a fronte dello 0,6% tra gli uomini): i 145 beneficiari ricevono un rimborso molto elevato (3,2 mila euro), con valori maggiori tra le donne (3,7 mila €, a fronte di 2,3 mila € tra gli uomini).

È preoccupante che solo lo 0,1% dei lavoratori dipendenti (21 mila unità) riceva il rimborso per le spese sostenute per i servizi rivolti all’infanzia (asili nido, scuole materne e centri estivi), con minime differenze di genere.

Il valore medio dei benefit ricevuti dai dipendenti nel corso dell’anno relativi ai servizi non contrattuali di welfare aziendale (rimborso delle spese per asili, cure mediche, libri scolastici, circoli sportivi, cellulare, vacanze, prodotti dell’azienda e altri) è pari a 679 euro, con valori più elevati per gli uomini.

La distribuzione per tipologia familiare di cui fanno parte i lavoratori mostra, sorprendentemente, che i valori medi più elevati non sono stati percepiti dalle famiglie con figli, con maggiori bisogni di servizi di conciliazione, ma dalle coppie senza figli (947 €), seguite con una differenza di 250 euro da quelle con figli (695 €), dai single (580 €) − le madri e i padri che svolgono da soli il ruolo di genitori (496 €), che probabilmente sono i più bisognosi in assoluto di aiuti per la cura dei figli – e da altre tipologie familiari (492 €).

La differenza di genere più elevata nel valore dei benefit si registra tra le coppie senza figli (oltre 700 euro) e quella minore tra chi fa parte di una coppia con figli (meno di 50 euro). Probabilmente il welfare aziendale penalizza le donne perché è spesso circoscritto ai lavoratori “tipici” e full-time, mentre le donne hanno percorsi lavorativi più discontinui e sono costrette a utilizzare maggiormente il part-time, per conciliare il lavoro con le esigenze di cura dei bambini.

Le misure di welfare aziendale non contrattuali sono scarsamente diffuse nel Mezzogiorno (2,2% dei dipendenti) e maggiormente nel Centro (4,2%) e nel Nord (5%) (figura 3.2).

La regione dove si registra la percentuale più alta di lavoratori che beneficiano di queste misure di welfare aziendale è l’Emilia-Romagna (8,9%), seguita dal Lazio (6,2%), dalla Lombardia (5,2%) e dal Friuli-Venezia Giulia (5%), mentre le quote più basse si osservano in Sardegna (0,7%) e in Sicilia (1%).

La quota dei dipendenti che percepiscono prestazioni di welfare aziendale e il loro valore cresce con l’aumento del livello d’istruzione, a cui corrisponde normalmente un innalzamento proporzionato della retribuzione: l’incidenza dei percettori sale dall’1,6% dei lavoratori che hanno conseguito al massimo la licenza media al 7,6% dei laureati e il valore medio dei benefit da 560 a 768 euro.

Quest’ultimo effetto è determinato dal fatto che normalmente il valore dei benefit è proporzionale a quello delle retribuzioni e alcune volte sostituisce una parte della retribuzione, con benefici sia per l’azienda sia per il dipendente.

66 CONDIVISIONI
Immagine
Giornalista dal 2016 e consulente del lavoro, sono caposervizio dell'area Job. Scrivo di lavoro, fisco e previdenza.
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views