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Lavoro intermittente: la nuova normativa prevista dal Jobs Act

Il Decreto di riordino delle tipologie contrattuali abrogherà e riscriverà la normativa sul lavoro intermittente o a chiamata. Resta confermato il limite di 400 giornate in tre anni, così come gli obblighi di comunicazione preventiva. Vediamo il contenuto del nuovo testo e quali sono le novità.
A cura di Antonio Barbato
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lavoro a chiamata

Il Decreto di riordino delle tipologie contrattuali, che sarà approvato e pubblicato in Gazzetta Ufficiale tra maggio e giugno 2015, prevede una serie di abrogazioni e riscritture di contratti di lavoro. Tra i contratti riscritti c’è il lavoro intermittente o a chiamata. Vediamo cosa contiene la nuova normativa prevista nel decreto attuativo del Jobs Act in materia di lavoro intermittente o a chiamata.

Il testo normativo introdotto nel Decreto che è in corso di approvazione riprende in gran parte la normativa della Riforma Biagi in materia di lavoro intermittente, normativa modificata nel tempo da vari interventi legislativi, ma che dallo stesso decreto del Jobs sarà abrogata. La disciplina del lavoro intermittente quindi non subirà grosse modifiche rispetto alla normativa attualmente in vigore (quella dopo le modifiche della Legge Fornero che hanno fortemente limitato il ricorso al contratto a chiamata). Sarà prevista una più complessa burocrazia gestionale. Viene di fatto riscritta la normativa, confermando in gran parte quanto già in vigore.

La bozza di decreto regolamenta il lavoro intermittente negli articoli da 11 a 16. Vediamo il contenuto.

Con la definizione del contratto di lavoro intermittente, il legislatore conferma che tale contratto può essere stipulato a tempo indeterminato o a tempo determinato. E che con questo contratto il lavoratore “si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa” entro certi limiti. Tali imiti sono esplicitamente previsti in un articolo del decreto che tratta i casi di ricorso al lavoro intermittente.

Il ricorso al lavoro a chiamata è consentito “per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente, secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi” anche con riferimento alla possibilità “di stipulare tale contratto in periodi predeterminati nell'arco della settimana, del mese o dell'anno”. Laddove manca la disciplina del contratto collettivo interverrà il Ministero del lavoro con un decreto.

Per quanto riguarda i lavoratori che possono stipulare i contratti di lavoro intermittente, la normativa non cambia rispetto al passato. Il contratto può essere infatti “in ogni caso essere concluso con soggetti con più di 55 anni di età e con meno di 24 anni di età, fermo restando in tale caso che le prestazioni contrattuali devono essere svolte entro il venticinquesimo anno di età”.

Il limite del numero di giornate di lavoro a chiamata nel triennio è sempre lo stesso, infatti il ricorso al lavoro intermittente, con “l’eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo”, è ammesso “per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro, per un periodo complessivamente non superiore a quattrocento giornate di effettivo lavoro nell'arco di tre anni solari”. Il superamento comporta la trasformazione “in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato”.

Disciplinate specificamente anche le ipotesi in cui è vietato il ricorso al lavoro intermittente o a chiamata:

a) per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;

b) presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi, che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro intermittente ovvero presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione del lavoro o una riduzione dell'orario, in regime di cassa integrazione guadagni, che interessino lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro intermittente;

c) da parte di datori di lavoro che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

Le ipotesi di divieto al ricorso al lavoro intermittente sembrano poste in termini tassativi, mentre la normativa in vigore con il D. Lgs. n. 276 del 2003 fa salva l’ipotesi di una diversa previsione da parte degli accordi sindacali.

Per quanto riguarda la stipula del contratto di lavoro è richiesta sempre la “forma scritta ai fini della prova” di una serie di elementi quali “la durata e ipotesi, oggettive o soggettive che consentono la stipulazione del contratto”, il “luogo e modalità della disponibilità, eventualmente garantita dal lavoratore, e del relativo preavviso di chiamata del lavoratore che non può essere inferiore a un giorno lavorativo”, il “trattamento economico e normativo spettante al lavoratore per la prestazione eseguita e relativa indennità di disponibilità”, le “forme e modalità, con cui il datore di lavoro è legittimato a richiedere l'esecuzione della prestazione di lavoro, nonché delle modalità di rilevazione della prestazione”, i “tempi e modalità di pagamento della retribuzione e della indennità di disponibilità” e le “misure di sicurezza specifiche necessarie in relazione al tipo di attività dedotta in contratto”.

Il datore di lavoro ha inoltre un obbligo comunicativo annuale ossia informare “le rappresentanze sindacali aziendali o le rappresentanze sindacali unitarie, ove esistenti, sull'andamento del ricorso al contratto di lavoro intermittente”. Ma soprattutto resta l’obbligo comunicativo relativo al singolo ricorso al lavoro a chiamata. Infatti “prima dell'inizio della prestazione lavorativa o di un ciclo integrato di prestazioni di durata non superiore a trenta giorni, il datore di lavoro è tenuto a comunicarne la durata con modalità semplificate alla Direzione territoriale del lavoro competente per territorio, mediante sms o posta elettronica”. La violazione di tali obblighi comporta la sanzione amministrativa “da euro 400 ad euro 2.400 in relazione a ciascun lavoratore per cui è stata omessa la comunicazione”. Inoltre “non si applica la procedura di diffida di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124”.

Per quanto riguarda l’indennità di disponibilità, riconosciuta ai lavoratori che mettono a disposizione le energie lavorative al datore di lavoro anche nei giorni in cui non arriva la chiamata, il Decreto prevede che nel contratto deve essere stabilita “la misura della indennità mensile di disponibilità, divisibile in quote orarie, corrisposta al lavoratore per i periodi nei quali ha garantito la disponibilità al datore di lavoro”.

Per quanto riguarda gli importi, “la misura dell’indennità è prevista dai contratti collettivi” e se nei casi in cui i CCNL non disciplinano la misura, verrà pubblicato un Decreto del Ministro del Lavoro. L'indennità di disponibilità è “esclusa dal computo di ogni istituto di legge o di contratto collettivo”, mentre per quanto riguarda i contributi, essi sono “versati per il loro effettivo ammontare, anche in deroga alla vigente normativa in materia di minimale contributivo”.

Ovviamente il Decreto precisa che le norme relative all’indennità di disponibilità si applicano “soltanto nei casi in cui il lavoratore si obbliga contrattualmente a rispondere alla chiamata del datore di lavoro”. E’ infatti previsto che “il rifiuto ingiustificato di rispondere alla chiamata può costituire un motivo di licenziamento e comportare la restituzione della quota di indennità di disponibilità riferita al periodo successivo all'ingiustificato rifiuto”. Da notare l’assenza, rispetto alla normativa della Legge Biagi in materia di lavoro intermittente, della previsione, in caso di ingiustificato rifiuto di rispondere alla chiamata, di un diritto al risarcimento del danno in una misura fissata dai contratti collettivi o dal contratto di lavoro individuale.

Il decreto disciplina anche i casi in cui il lavoratore per malattia o altro evento è impossibilitato temporaneamente a rispondere alla chiamata. In questo caso il lavoratore “è tenuto a informare tempestivamente il datore di lavoro, specificando la durata dell'impedimento”. Inoltre “nel periodo di temporanea indisponibilità non matura il diritto alla indennità di disponibilità”. Prevista anche la “sanzione” per il lavoratore che omette di comunicare di essere impossibilitato temporaneamente: “Ove il lavoratore non provveda all'adempimento di cui al periodo precedente, perde il diritto alla indennità di disponibilità per un periodo di quindici giorni, salva diversa previsione del contratto individuale”.

Per quanto riguarda i diritti retributivi dei lavoratori a chiamata, il Decreto di riordino dei contratti di lavoro, così come interviene nel disciplinare la parità di trattamento riguardo ai lavoratori con contratto part-time, interviene disciplinando un principio di non discriminazione: “Il lavoratore intermittente non deve ricevere, per i periodi lavorati, un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore di pari livello, a parità di mansioni svolte”.

Essendo il lavoratore intermittente un esecutore di prestazioni a carattere discontinuo ovviamente il decreto prevede che “il trattamento economico, normativo e previdenziale del lavoratore intermittente è riproporzionato, in ragione della prestazione lavorativa effettivamente eseguita, in particolare per quanto riguarda l'importo della retribuzione globale e delle singole componenti di essa, nonché delle ferie e dei trattamenti per malattia, infortunio sul lavoro, malattia professionale, maternità, congedi parentali”.

Le norme sul diritto alla retribuzione dei lavoratori con contratto a chiamata si concludono con un comma che stabilisce che “per tutto il periodo durante il quale il lavoratore resta disponibile a rispondere alla chiamata del datore di lavoro non matura alcun trattamento economico e normativo, salvo l'indennità di disponibilità”.

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