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Licenziamento e dimissioni durante maternità e primo anno del bambino

Durante la gravidanza, il congedo di maternità per astensione obbligatoria e il primo anno del bambino vige il divieto di licenziamento della donna lavoratrice incinta e poi madre. Anche la dimissione è soggetta a convalida della DPL, dopo la riforma Fornero fino ai tre anni di vita del bambino. Vediamo tutte le tutele e come difendersi contro i licenziamento.
A cura di Antonio Barbato
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gravidanza e primo anno del bambino divieto di licenziamento

UPDATE – Aggiornamento 27 febbraio 2013) – La legge italiana tutela i diritti della lavoratrice donna e la sua fondamentale funzione nella vita familiare. C’è un momento della vita della donna in cui lo status di lavoratrice e lo status di madre si incrociano: è il momento della gravidanza e della nascita di un figlio. In questo caso, per ovvi motivi, la donna deve astenersi dal lavoro, soprattutto nella fase finale della gestazione. La legge prevede il congedo di maternità, di cinque mesi, che va normalmente da due mesi prima del parto e si protrae fino a tre mesi dopo del parto. Si tratta di una astensione dal lavoro obbligatoria con tanto di divieto per il datore di lavoro di adibire la donna alle sue mansioni previste nel contratto di lavoro.

La gravidanza di una donna rappresenta, aldilà della legge, un momento di reale sospensione del rapporto lavorativo, del sinallagma prestazione-retribuzione tra lavoratrice e datore di lavoro. A provvedere alla retribuzione della donna è l’Inps con l’indennità di maternità, sempre per i 5 mesi. Nonostante questo, non di rado la gravidanza di una lavoratrice rappresenta un “problema” nei rapporti di lavoro, nel senso che c’è il forte rischio che il datore di lavoro abbia interesse a licenziare la donna o la induca alle dimissioni, non proprio volontarie, in vista dell’assenza tutelata della lavoratrice dal luogo di lavoro.

Per scongiurare o per combattere tale pericolo è intervenuta la legge, con una serie di tutele previste contro i licenziamenti durante il periodo che va dalla gravidanza al primo anno del bambino. E’ previsto proprio un espresso divieto al licenziamento. Sono possibili deroghe ma con molte tutele per la donna. Analoghe tutele sono previste per le dimissioni intervenute in tale periodo, atte a verificare il reale interesse della donna a dimettersi. Vediamo tutti gli aspetti, compreso le possibilità di difesa della donna licenziata durante il periodo in cui vige il divieto.

SOMMARIO:

Divieto di licenziamento
Deroghe al divieto
Difendersi contro il licenziamento illegittimo
Tutele in caso di dimissioni

Il divieto di licenziamento durante gravidanza e  primo anno del bambino

Il divieto di licenziamento durante la gravidanza, il congedo di maternità e il primo anno di vita del bambino. La lavoratrice non può essere licenziata dall’inizio del periodo di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino. In questo periodo vige quindi una tutela legale a favore della donna, che pertanto va oltre il periodo di astensione obbligatoria di 5 mesi, distribuito tra i mesi prima e dopo la data del parto.

Per stabilire il periodo esatto, va considerato che l’inizio della gestazione si presume sia avvenuto 300 giorni prima della data presunta del parto indicata nel certificato di gravidanza, lo stabilisce l’art. 87 del Decreto Legislativo n. 151 del 2001, il Testo Unico in materia di tutela a sostegno della maternità e della paternità.

Adozione, affidamento e divieto di licenziamento. Il divieto si applica anche in caso di adozione e affidamento ed opera fino ad un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare. In caso di adozione internazionale il divieto opera dal momento della comunicazione della proposta di incontro con il minore adottato ovvero dalla comunicazione dell’invito a recarsi all’estero per ricevere la proposta di abbinamento. Lo stabilisce l’art. 54 del D. Lgs. 151 del 2001.

Divieto di sospensione dal lavoro. Durante il periodo in cui opera il divieto, quindi nei mesi di gravidanza e fino ad 1 anno di età del bambino, la lavoratore non può essere neanche sospesa dal lavoro, salvo il caso che sia sospesa l’attività dell’azienda o del reparto in cui la donna è addetta, sempre che il reparto abbia autonomia funzionale. Il divieto di sospensione dal lavoro sussiste anche nel caso in cui la gravidanza della lavoratrice sia sopravvenuta al relativo provvedimento di sospensione, facendo venire meno gli effetti della sospensione stessa.

Collocamento in mobilità. Vige anche il divieto di collocare in mobilità la lavoratrice a seguito di un licenziamento collettivo, salvo che non ci sia stato un collocamento in mobilità a seguito della cessazione dell’attività aziendale.

Il licenziamento intimato alla lavoratrice madre per cessazione di attività aziendale al termine del periodo di astensione obbligatoria, ma nel corso del periodo di interdizione, è nullo se il datore di lavoro non dimostra l’impossibilità di riutilizzare la lavoratrice presso una diversa struttura aziendale.

La nullità del licenziamento a seguito di congedo parentale. Il licenziamento può essere considerato nullo, non solo quando avviene nel periodo di tutela legale legato alla gravidanza e al primo anno di età del bambino, ma anche quando il licenziamento è causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale (astensione facoltativa), o il congedo per la malattia del bambino, sia nel caso a richiedere l’assenza da lavoro sia la lavoratrice madre o il padre lavoratore. In questi casi ovviamente va dimostrata la connessione tra il licenziamento e i congedi.

Riduzione dell’orario di lavoro e cambiamento delle mansioni. Il divieto di licenziamento è valido anche nelle ipotesi di riduzione dell’orario di lavoro e per quanto riguarda le mansioni alla quale può essere adibita la lavoratrice, ricordiamo che ci sono dei lavori vietati per la donna incinta. In ogni caso, il datore di lavoro può adibire a mansioni diverse, compatibilmente con lo stato di salute della donna e del nascituro. In questo caso deve garantire alla donna il mantenimento della retribuzione normalmente percepita.

Deroghe al divieto di licenziamento della donna in gravidanza

Ci sono dei casi in cui il divieto di licenziamento durante la gravidanza e il primo anno di età del bambino neonato non opera. Sono i seguenti casi previsti dall’art. 54 del Decreto Legislativo n. 151 del 2001:

  • Esito negativo della prova;
  • Giusta causa, in caso di colpa grave da parte della lavoratrice, che giustifica la risoluzione del rapporto di lavoro;
  • Cessazione dell’attività aziendale in cui è addetta;
  • Ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta;
  • Risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine.

Licenziamento colf e badanti senza tutela. Nel caso di lavoratrici addette a servizi domestici e familiari, il divieto di licenziamento non opera proprio. A queste lavoratrici è espressamente riconosciuta l’indennità di maternità e il divieto per quanto riguarda l’adibizione al lavoro durante la gravidanza e puerperio.

Colpa grave della lavoratrice. Per quanto riguarda il licenziamento per giusta causa durante il periodo di tutela legale della gravidanza e del primo anno del bambino, è necessaria la sussistenza di mancanze di particolare gravità. Una sentenza della Cassazione del 2000 stabilisce che ai fini dell’operatività della norma che rende inoperante il divieto di licenziamento della lavoratrice per “colpa grave da parte della lavoratrice”, non è sufficiente accertare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, ma è invece necessario verificare, con il relativo onere probatorio a carico del datore di lavoro, se sussista quella colpa specificamente prevista dalla norma e diversa (per l’indicato connotato di gravità) da quella prevista dalla legge o dalla disciplina collettiva per generici casi di infrazione o di inadempimento sanzionati con la risoluzione del rapporto

La suddetta verifica deve essere eseguita tenendo conto del comportamento complessivo della lavoratrice, in relazione alle sue particolari condizioni psico-fisiche legate allo stato di gestazione, le quali possono assumere rilievo ai fini dell’esclusione della gravità del comportamento sanzionato solo in quanto abbiano operato come fattori causali o concausali dello stesso.

Cessazione dell’attività aziendale. In questo caso si intende la cessazione totale dell’attività aziendale, mentre nelle ipotesi di soppressione di un servizio occorre provare l’autonomia organizzativa e funzionale del servizio cessato rispetto agli altri eventualmente da essa gestiti e la circostanza che la donna incinta o madre licenziata non possa essere utilizzata in altra occupazione all’interno dell’impresa.

Ultimazione della prestazione  e risoluzione per scadenza del termine. Questa disposizione, precisa la Cassazione, è riferita solo alla donna lavoratrice incinta assunta con contratto a tempo determinato. Non riguarda invece le lavoratrici assunte con contratto a tempo indeterminato.

Nel caso di appalti di servizi, ad esempio, con la scadenza dell’appalto in capo ad un appaltatore e riassorbimento del personale impiegato da parte di un secondo appaltatore vincitore del successivo appalto, non è consentito escludere dalla forza lavoro, quindi licenziare, la lavoratrice incinta o madre di un bambino con meno di un anno di età, solo perché assente per maternità, facendo riferimento alla norma che consente la deroga al divieto di licenziamento per ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta. Questo nell’ipotesi che della donna titolare di un contratto a tempo indeterminato con l’appaltatore.

Licenziamento nei lavori stagionali. Nel caso delle lavoratrici stagionali, licenziate per cessazione dell’attività aziendale, c’è il diritto, fino al compimento di un anno di età del bambino, sempreché non si trovino in astensione obbligatoria, alla ripresa dell’attività lavorativa stagionale e alla precedenza nelle assunzioni.

Difendersi contro il licenziamento illegittimo durante gravidanza e maternità

Il licenziamento intimato durante il periodo in cui vige la tutela legale della madre lavoratrice è da considerarsi nullo e comporta, in mancanza della richiesta di ripristino del rapporto, anche il pagamento a titolo risarcitorio delle retribuzioni successive alla data di effettiva cessazione del rapporto di lavoro. Il rapporto viene considerato come mai interrotto e questo indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda.

Quindi non conta nulla in questo caso l’applicazione della tutela reale o della tutela obbligatoria ai sensi dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, legata alle dimensioni aziendali (più di 15 lavoratori o meno), che consentono il reintegro nel posto di lavoro e, soprattutto, la facoltà di scelta tra reintegro e licenziamento in capo al lavoratore nel caso della tutela reale o, viceversa, in capo al datore di lavoro nel caso di tutela obbligatoria.

Impugnazione del licenziamento e termini. Una sentenza del 2000 della Cassazione stabilisce che al licenziamento della lavoratrice madre non è applicabile l’art. 6 della legge 604 del 1966, il quale impone l’onere di impugnare il licenziamento entro il termine di decadenza di 60 giorni. Una sentenza sempre della Cassazione del 2004 precisa però che qualora il licenziamento sia stato intimato per giusta causa, l’impugnazione del licenziamento va effettuata con una contestazione entro il termine di decadenza della norma del 1996, quindi entro 60 giorni. Questo anche se la lavoratrice assume che sia stata violata nei suoi confronti la normativa che tutela la maternità.

La certificazione a dimostrazione della gravidanza. Una sentenza della Cassazione del 2008, la n. 5749, stabilisce che il divieto di licenziamento opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza e la lavoratrice licenziata nel corso del periodo in cui opera il divieto, è tenuta a presentare al datore di lavoro idonea certificazione dalla quale risulti l’esistenza, all’epoca del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano. La lavoratrice può presentare il certificato anche in allegato al ricorso con il quale impugna il licenziamento.

Il divieto di licenziamento e la sanzione di nullità dello stesso opera anche nel caso in cui la lavoratrice non ha tempestivamente informato il datore di lavoro del suo stato di gravidanza. In questo caso però il diritto alla retribuzione a titolo risarcitorio decorre dal momento della comunicazione accompagnata dalla presentazione del certificato medico.

Il licenziamento illegittimo e i suoi effetti. Come abbiamo detto il licenziamento intimato alla lavoratrice dall’inizio del periodo di gestazione e fino al compimento del primo anno di età del bambino è nullo e improduttivo di effetti. Quindi il rapporto di lavoro deve ritenersi giuridicamente pendente ed il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall’inadempimento, in ragione del mancato guadagno. A stabilirlo è una sentenza della Cassazione del 2004.

Dall’entità del risarcimento devono essere detratte le somme percepite per l’attività eventualmente prestata a favore di terzi dalla lavoratrice, dopo il licenziamento illegittimo. Lo stabilisce una sentenza sempre del 2004. Questo significa che c’è una differenza rispetto all’applicazione della tutela reale dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che non ammette detrazioni di retribuzioni. Quindi nel caso di licenziamento durante la gravidanza e il primo anno del bambino vige il regime di nullità ma la tutela speciale dell’art. 18 non opera. Il risarcimento di tipo economico non è riconosciuta nei periodi di lavoro.

Niente indennità sostitutiva di 15 mensilità. L’inapplicabilità dell’art. 18 in caso di licenziamento durante la maternità rende di fatto impossibile per la lavoratrice ingiustamente licenziata nel periodo protetto dalla legge di optare per la corresponsione delle 15 mensilità previste a titolo di indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro in caso di tutela reale (art. 18 comma 5 della legge n. 300 del 1970, lo Statuto dei lavoratori appunto).

Le tutele in caso di dimissioni della lavoratrice

Il Testo Unico in materia di tutela a sostegno della maternità e della paternità, il Decreto legislativo n. 151 del 2001, si occupa, all’art. 55, del caso delle dimissioni volontarie della lavoratrice presentate durante il periodo in cui vige divieto di licenziamento, durante il periodo di gravidanza e fino al compimento di un anno di età del bambino. E’ prevista una speciale tutela contro tali dimissioni, proprio per combattere l’eventualità che la donna sia indotta a dimettersi.

La riforma del mercato del lavoro voluta dal Ministro Fornero, la legge n. 92 del 2012, all’art. 16 comma 4 ha modificato la disciplina dell’art. 55 comma 4 del D. Lgs. 151 del 2001 in materia di dimissioni della lavoratrice madre ed in materia di risoluzione consensuale. E’ arrivata l’estensione fino a tre anni di vita del bambino della convalida delle dimissioni della lavoratrice madre.

Il comma 16 dell’art. 4 della Legge n. 92 del 2012 recita “La risoluzione consensuale del rapporto o la richiesta di dimissioni presentate dalla lavoratrice devono essere convalidate dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali competente per territorio” nei seguenti casi:

  • durante il periodo di  gravidanza;
  • dalla lavoratrice o dal lavoratore durante i primi tre anni di vita del bambino;
  • nei primi tre anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento, o, in caso di adozione internazionale, nei primi tre anni decorrenti dalle comunicazioni di  cui all’articolo 54, comma 9, ossia la proposta di incontro con il minore adottando o la comunicazione dell’invito a recarsi all’etero per ricevere la proposta di abbinamento.

Quindi, come detto, viene esteso ai tre anni di vita del bambino la tutela della lavoratrice o del lavoratore padre. Ai casi appena elencati si estende l’istituto della convalida anche nel caso di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. Per maggiori informazioni vediamo la convalida delle dimissioni della riforma Fornero.

Pertanto la legge non difende solo la donna contro i licenziamenti, ma limita anche le possibilità di dimissioni. Il servizio ispettivo del Ministero del lavoro valuterà le condizioni che hanno portato la donna a dimettersi e solo nel caso siano giustificate da motivi validi, e quindi non ci sia alcun vizio della volontà, consentirà alla donna di risolvere il contratto di lavoro convalidando le dimissioni.

Analogo discorso sulla tutela nel caso di dimissioni vale anche per il padre lavoratore che ha fruito del congedo di paternità, cioè quando un evento negativo (la morte della madre, l’abbandono, ecc.), non consente alla donna di fruire del periodo di congedo di maternità. Tutti i diritti passano in capo al padre, compreso la tutela contro i licenziamenti e la dimissione. Questo sempre fino al compimento di un anno di età del bambino.

Va precisato però che l’estensione a tre anni di vita del bambino della tutela dell’art. 55 comma 4, come modificato dalla riforma Fornero, non riguarda i casi previsti dal comma 1 dello stesso articolo 55, cioè vale a dire che le indennità restano ancorate al compimento di un anno di vita del bambino. Ossia spetta l’indennità di disoccupazione Aspi alla lavoratrice madre che si dimette entro un anno di vita del bambino, così come per l’indennità sostitutiva del preavviso.

Dimissione entro l’anno del bambino e l’indennità sostitutiva del preavviso. Il comma 1 stabilisce inoltre che in caso di dimissioni volontarie, presentate durante il periodo per cui è previsto il divieto di licenziamento, la lavoratrice ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento. Il comma 5 stabilisce inoltre che la lavoratrice o il lavoratore non sono tenuti a concedere il preavviso.

Ma anzi,  se negli altri casi, il lavoratore che non concede il preavviso al datore di lavoro si vedrà trattenuta l’indennità sostitutiva del preavviso in busta paga, nel caso di dimissioni della lavoratrice durante il periodo di gestazione e nel primo anno del bambino, convalidate dall’Ispettorato, la donna ha diritto ad una delle indennità previste da disposizioni di legge citata dal comma 1 dell’art. 55, ossia ha diritto all’indennità sostitutiva del preavviso.  Proprio l’indennità sostitutiva del preavviso, che dovrà quindi essere accreditata nella busta paga dell’ultimo mese del rapporto di lavoro.

La prova del datore di lavoro. Esiste la possibilità che l’indennità sostitutiva del preavviso non venga concessa dal datore di lavoro. E’ quando provi che la lavoratrice abbia, senza intervallo di tempo, iniziato un nuovo lavoro dopo le dimissioni e la medesima, a sua volta, non provi che il nuovo lavoro sia per lei meno vantaggioso sul piano sia patrimoniale che non patrimoniale. Ad esempio per gravosità delle mansioni oppure per maggiore distanza della sede di lavoro dall’abitazione. Lo ha stabilito la Cassazione in una sentenza del 2000.

Un altro esempio di indennità spettante, per legge, è quello dell’indennità di disoccupazione sia con requisiti ridotti che ordinaria. Quindi la lavoratrice che ottiene la convalida da parte dell’Ispettorato può ottenere questa ulteriore tutela previdenziale.

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